Dalla gloria alla catastrofe: come la patata ha definito una civiltà e causato una carestia
Per gli Inca delle Ande sudamericane, la patata (Solanum tuberosum) non era solo un alimento: era il pilastro di un’intera civiltà. La domesticazione della patata risale a circa 8.000 anni fa. Tra l’attuale Perù meridionale e la Bolivia, la patata rappresentava una risorsa unica: nutriente, adattabile e capace di crescere in terreni poveri e ad altitudini proibitive per altre colture.
Gli agricoltori andini avevano sviluppato migliaia di varietà diverse, ciascuna selezionata per specifici climi e condizioni del suolo. Per conservarla nei mesi freddi, gli Inca la trasformavano in chuño, una patata naturalmente liofilizzata che poteva essere immagazzinata per anni e sfamare eserciti e popolazioni intere.
“La patata non era solo cibo. Era una forma di sicurezza alimentare e di potere politico”, affermano gli antropologi che studiano la società Inca.
La patata arriva in Europa
Quando gli spagnoli introdussero la patata in Europa nel XVI secolo, inizialmente fu accolta con sospetto. Essendo parte della stessa famiglia della belladonna, molti pensavano che fosse velenosa. Ma la realtà si impose presto: era semplice da coltivare, produceva molto e richiedeva poca manodopera.
Come spiega il biologo evoluzionista Scott Travers in un recente articolo su Forbes: “Col tempo, i vantaggi superarono i pregiudizi. Nel XVII secolo, la patata era diventata uno dei principali alimenti dell’Europa.”
In particolare, il clima fresco e umido dell’Irlanda si rivelò ideale per la sua coltivazione.
La dipendenza dell’Irlanda dalla patata
All’inizio del XIX secolo, circa la metà della popolazione irlandese sopravviveva grazie alla patata. Le famiglie più povere coltivavano pochi acri e vivevano quasi esclusivamente del raccolto annuale.
Dal punto di vista nutrizionale, questa dipendenza era sorprendentemente valida: la patata forniva carboidrati, potassio, vitamina C e, insieme al latte, anche proteine sufficienti.
Sembrava una coltura perfetta.
Ma il quadro aveva un punto debole: la mancanza di biodiversità. L’intero sistema agricolo irlandese si basava su un’unica varietà genetica di patata. Un rischio invisibile, finché un organismo microscopico non arrivò dall’altra parte del mondo.
L’arrivo di Phytophthora infestans: la catastrofe
Nel 1845, in Irlanda apparvero foglie con macchie scure, marciume e un odore acre. Nel giro di settimane, campi interi furono distrutti.
Uno studio del 2013 pubblicato sulla rivista eLife ha identificato il responsabile: Phytophthora infestans, un patogeno simile a una muffa acquatica originario degli altopiani del Messico. Là, le patate selvatiche avevano evoluto una resistenza naturale; le varietà europee, invece, ne erano completamente prive.
“L’uniformità genetica della patata in Irlanda rese impossibile prevenire la malattia”, spiega Travers.
Le spore del patogeno si diffondevano nell’aria e, trasportate dal vento e dall’umidità, attaccavano migliaia di piante in pochi giorni. Nel 1846, quasi l’intero raccolto irlandese era perduto.
La carestia diventa tragedia umanitaria
Ciò che iniziò come disastro agricolo si trasformò in catastrofe sociale quando il governo britannico non intervenne con adeguati aiuti.
Tra il 1845 e il 1852 1 milione di persone morì di fame e malattie, altri 2 milioni emigrarono principalmente negli Stati Uniti e in Canada, la popolazione irlandese scese da 8 a meno di 6 milioni.
Travers osserva: “Questa non fu solo una crisi agricola, ma una lezione per l’umanità sull’importanza della biodiversità.”
La patata, che aveva nutrito civiltà e alimentato popolazioni, divenne simbolo dei rischi della dipendenza da un’unica coltura.
Una lezione per il presente
La storia della patata dimostra una verità fondamentale: quando la biodiversità viene sacrificata in nome dell’efficienza agricola, il sistema diventa fragile.
"La patata era un superalimento - conclude Travers - ma le stesse caratteristiche che la rendevano potente la resero vulnerabile.”
Oggi, con l’agricoltura moderna sempre più basata su monoculture, la lezione della Grande Carestia rimane più attuale che mai.