Fincantieri-US Navy: l’industria militare europea va dove è più redditizio
La rimodulazione del contratto tra l’azienda italiana produttrice di navi Fincantieri e la Marina degli Stati Uniti, annunciata mercoledì 26 novembre, è giunta proprio a ridosso del Consiglio "Affari esteri" al quale parteciperanno i ministri della Difesa, previsto per oggi, lunedì 1 dicembre, a Bruxelles.
Alla riunione si parlerà di sostegno militare all'Ucraina, ma anche di "prontezza alla difesa, concentrandosi sull'attuazione della tabella di marcia sulla prontezza alla difesa per il 2030”. È in questo senso che la commessa ottenuta da Fincantieri può rappresentare un elemento di riflessione, poiché l'azienda - rispondendo a criteri finanziari, come qualunque impresa - tende a privilegiare le offerte più interessanti.
Cosa prevedeva il contratto iniziale tra Fincantieri e la Marina statunitense, firmato nel 2020
Il contratto in questione risale ormai a cinque anni fa. Nel 2020, la US Navy aveva sottoscritto un accordo da circa 5,58 miliardi di dollari con la compagnia di cui lo Stato italiano detiene la maggioranza (il 71,32 per cento, attraverso la Cassa depositi e prestiti).
Gli Usa erano guidati, proprio come oggi, da Donald Trump, all'epoca nel corso del suo primo mandato alla Casa Bianca. La commessa giunta a Fincantieri era per la costruzione di dieci navi. Si trattava di un prototipo delle nuove navi di stazza medio-piccola che Washington intendeva fornire alla propria Marina, derivazione delle Fremm (Fregate europee multi-missione).
Queste ultime erano già state prodotte negli anni precedenti, nell'ambito di una collaborazione tra l’Italia (attraverso la società Orizzonte Sistemi Navali, posseduta al 51 per cento da Fincantieri) e la Francia (tramite la joint venture Armaris). Si è trattato, di fatto, di un successo per le Fremm, che hanno battuto la concorrenza, tra gli altri, di Austal Usa, General Dynamics e Navantia, aggiudicandosi il contratto.
La produzione prevista interamente sul territorio degli Stati Uniti
La fabbricazione delle navi nell'ambito dell’accordo con la US Navy del 2020, però, non era stata affidata direttamente a Fincantieri, bensì a una sua controllata, la Fincantieri Marinette Marine, la cui sede è situata nello Stato del Wisconsin. La produzione, dunque, è stata prevista interamente sul territorio statunitense.
"Attualmente sono impiegati circa 3.750 lavoratori altamente specializzati negli Stati Uniti, con un recente incremento di 850 unità per sostenere la crescita e rafforzare la propria base industriale”, precisa il costruttore italiano, che aveva acquistato la Marinette Marine nell’agosto del 2008. La cessione fu effettuata dell’americana Manitowoc della divisione Manitowoc Marine Group. Il prezzo di acquisto dell’operazione fu fissato a 120 milioni di euro.
Tuttavia, della commessa da 5,58 miliardi - come sottolineava già al momento dell’annuncio dell’accordo Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo - soltanto una parte era stata garantita da subito, pari a 795 milioni di dollari. Il resto doveva attendere l’esercizio di un’opzione da parte della Marina statunitense. In mancanza del quale, appunto, si è dovuto scegliere la strada della rimodulazione del contratto, finalizzata in questi giorni.
Le due navi già in cantiere “completate solo al 10 per cento”
Due navi, nell'ambito del contratto iniziale, sono già in costruzione. Tuttavia, a quanto si apprende da fonti statunitensi, il cantiere non è in fase avanzata. Si parla di "un 10 per cento appena", secondo quanto riportato dalla testata statunitense specializzata The War Zone, "a due anni di distanza dall'avvio della costruzione e a cinque dalla stipula del contratto".
I due cantieri avviati verranno completati. Ma gli altri saranno dunque sostituiti da imbarcazioni ancora più piccole di quelle inizialmente previste. Si tratterà di mezzi destinati a operazioni anfibie e missioni speciali e di piccoli natanti da combattimento di superficie, con e senza equipaggio.
"L’accordo - ha confermato in un comunicato il costruttore italiano - garantisce la prosecuzione dei lavori sulle due fregate della classe Constellation attualmente in costruzione, mentre si prevede la discontinuità del contratto relativo alle altre quattro unità già commissionate, in linea con le nuove priorità strategiche della US Navy. Oltre all'assegnazione di futuri ordini, a copertura di quanto sopra, l’intesa prevede un indennizzo a favore di Fincantieri Marine Group, tramite specifiche misure di compensazione”.
Previsto un indennizzo a favore di Fincantieri di circa un miliardo di dollari
“Il valore della nuova commessa - ha precisato a Euronews l’ufficio stampa di Fincantieri - è di circa due miliardi di dollari. Ad essa si aggiunge un indennizzo di circa un miliardo, per un totale di tre miliardi”. Il fatto che la produzione si effettui interamente negli Stati Uniti, però, rende di fatto trascurabile il ritorno economico per l’Italia.
“Al di là del pagamento prevedibile di una piccola quota di imposte allo Stato italiano nel momento del consolidamento del bilancio di Fincantieri - sottolinea Vignarca - i lavoratori impiegati sono e saranno americani. Concretamente, al di là di un ritorno in termini di marketing, al nostro Paese arriveranno solo briciole di quei miliardi. Diversamente dal caso di una commessa realizzata in Europa, per cui ci sarebbero stati lavoratori europei, stipendi europei e conseguenti consumi in loco. Si sarebbe insomma fatta ‘girare’ l’economia”.
Fincantieri fa tuttavia sapere a Euronews che, in molti casi, le commesse non si fermano alla mera costruzione dei mezzi navali ma prevedono anche altri ritorni, ad esempio in termini di servizi, manutenzione o addestramento.
“Le aziende vanno dove le porta l’appalto più redditizio”
Restano però alcuni dubbi in termini di strategia. In una fase nel corso della quale l’Unione europea sta insistendo per un riarmo dei Paesi membri, è utile produrre per una nazione extra-Ue, ancorché alleata? “La realtà - prosegue Vignarca - è che tutti i fondi che Bruxelles propone, da ultimo l’Edip votato pochi giorni fa, servono a poco per spingere verso un reale coordinamento strutturale dell'industria militare. Lo hanno già dimostrato i primi anni di implementazione dell'European Defence Fund, e non potrà che essere così anche per il futuro se consideriamo che lo stesso Edip prevede una soglia di co-produzione europea decisamente bassa, pari al 65 per cento”.
Quella soglia, indica però Fincantieri, è legata al fatto che una parte della componentistica non europea è utile per poter produrre rapidamente. Inoltre, prosegue il costruttore, in caso di commesse come quella della US Navy ad essere coinvolti sono anche i governi, nonché la Marina militare italiana, che potrebbero imporre vincoli per ragioni di interesse nazionale. Fincantieri ricorda inoltre che da questo punto di vista l'industria navale è "privilegiata" rispetto ad altre, poiché presenta un alto contenuto tecnologico e progettuale europeo.
Ciò non toglie che tutte le aziende, di fatto (anche quelle pubbliche), seguono inevitabilmente il mercato, privilegiando il miglior offerente, pur nei limiti imposti dalle normative e, eventualmente, dai governi: “Il caso dei caccia di sesta generazione è emblematico: al momento è partito un progetto tra Italia, Regno Unito e Giappone che fa concorrenza ad un'altro che coinvolge Francia, Spagna e Germania. Le aziende a produzione militare vanno dove le porta l’appalto più redditizio. Fingono di perseguire interessi nazionali e di sicurezza, ma in realtà cercano soprattutto i profitti maggiori. Per questo i fondi europei, per come sono strutturati, funzioneranno poco come catalizzatori di una dinamica verso una difesa comune europea”, osserva ancora Vignarca.
Secondo l'analista della Rete Italiana Pace e Disarmo e dell'Osservatorio Mil€x sulle spese militari, “anche dal punto di vista di chi vorrebbe un'autonomia militare e strategica europea occorrerebbe stigmatizzare il fatto che a mancare davvero sono decisioni politiche su sovranità e meccanismi decisionali, che vengono ben prima di strutture militari e fondi per il riarmo. Tralasciando il fatto che per noi pace e sicurezza non derivano dalle armi, è però ovvio che per costituire una vera Difesa europea (e di conseguenza un'industria militare che la possa assistere) per prima cosa serve una cessione di sovranità da parte degli Stati”.
I rischi nell'esportare il know-how europeo e il caso Leonardo-Turchia
Un po’ come fu il progetto di Comunità europea di difesa lanciato negli anni Cinquanta e poi abortito per l’opposizione della Francia. All'epoca, gli stessi Paesi che fondarono la Comunità europea del carbone e dell'acciaio - Belgio, Francia, Repubblica Federale di Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) - lanciarono il progetto di cooperazione militare. L'Assemblea Nazionale francese rigettò però il trattato il 30 agosto 1954.
La necessità di una politica "a monte" è però secondo Vignarca ancora viva: “Altrimenti se si costruiscono armi europee ma non c’è una politica chiara a monte, chi decide a chi andranno in dotazione, quando e in che modo dovranno essere usate?”.
I fondi europei, insomma, dovrebbero servire proprio per far “convergere” l’industria militare europea. Ma il rischio è che il know-how delle industrie dei Paesi membri venga portato altrove, come di fatto accade nel caso del contratto tra Fincantieri e la Marina statunitense. E come accaduto anche negli anni scorsi, ad esempio, con gli elicotteri “made in Italy” Agusta A129 Mangusta. Bimotori acquistati dalla Turchia e costruiti proprio sul territorio della nazione di Recep Tayyip Erdoğan su licenza del colosso degli armamenti italiano Leonardo.
Fincantieri fa sapere però a Euronews che, normalmente, nel caso della cantieristica navale più che esportare know-how si cedono prodotti finiti.
Si tratta in ogni caso di una questione ampia, e che presenta risvolti squisitamente politici, sulla quale Euronews ha provato a sollecitare telefonicamente anche la proprietaria Cassa depositi e prestiti (a sua volta pubblica, poiché controllata all’83 per cento del ministero dell’Economia), che però si è limitata a rispondere: “Si tratta di scelte di Fincantieri sulle quali non riteniamo di doverci esprimere”.