La lunga attesa di Gaza: cibo e medicine fermi al confine

Avvicinandosi al confine egiziano con la Striscia di Gaza, lungo la strada del Mediterraneo, è impossibile ignorare l’imponente presenza militare. Giovani soldati armati emergono da strutture abbandonate, veicoli blindati spuntano dalle dune e, infine, appare il muro: lastre di cemento che si innalzano per metri, tagliate solo da una strada che porta al valico di Rafah.
Ai lati, centinaia di camion carichi di aiuti umanitari attendono da giorni. La maggior parte è ferma: Israele consente l’ingresso a poche decine di mezzi, appena 40 al giorno secondo l’Oms, in alcuni casi anche solo 15. Numeri lontanissimi dai 500-600 che entravano quotidianamente durante il cessate il fuoco di inizio anno, insufficienti per i 2 milioni di abitanti di Gaza.
La scena si alterna tra immobilità e spettacolo. Davanti al passaggio di frontiera decorato in stile faraonico, viene allestito un podio con tappeto rosso, fiori di plastica e una selva di microfoni. Giornalisti e dignitari si riparano in una tenda improvvisata, mentre altoparlanti diffondono canzoni patriottiche egiziane. Poco dopo, arrivano il ministro degli Esteri egiziano Badr Abdelatty e il premier palestinese Mohamed Mustafa per un annuncio tanto atteso.
Sotto il sole cocente, però, le vere storie sono quelle all’ombra dei camion. Mahmoud e Ramadan, due autisti egiziani, aspettano da settimane di poter consegnare le loro 25 tonnellate di farina di mais. "Sono i nostri fratelli a Gaza", dice Ramadan, che dorme da giorni nel suo veicolo. Mahmoud, sulla cinquantina, ricorda le prime settimane della guerra: "Portavamo gli aiuti fino al nord della Striscia, scendevamo e parlavamo con la gente, davo l’acqua ai bambini". Ora non è più possibile. "Lasciamo cadere i sacchi e via. Sempre che ci lascino entrare".
Mentre i due preparano caffè speziato su un fornello a gas, un jet rompe il cielo con un urlo e poco dopo esplodono bombe in lontananza. Mahmoud non si scompone: ha già visto carichi di cibo marcire, tonnellate di farina bruciate dopo mesi di attesa. La speranza è che la visita ufficiale sblocchi almeno parte degli aiuti. "Se Dio vuole, sarà oggi", ripetono i due camionisti.
Quando finalmente il convoglio dei politici arriva, il clima si fa solenne. Abdelatty assicura che la posizione dell’Egitto resta "ferma" al fianco della causa palestinese. Mustafa promette che "non ci fermeremo finché non restituiremo la vita dignitosa al popolo di Gaza". Ma i 25 minuti di discorsi non portano alcuna novità concreta: né aperture sul flusso di aiuti, né progressi sul cessate il fuoco.
Tra i presenti c’è anche Maged Abu Ramadan, ministro della Sanità palestinese ed ex sindaco di Gaza. Denuncia che "il 90 per cento delle strutture sanitarie è distrutto" ma sostiene che, con supporto internazionale, il 70 per cento dei servizi potrebbe essere ripristinato in sei mesi. "Noi palestinesi siamo abituati a trovare soluzioni rapide", afferma, sottolineando però che l’aiuto dell’Europa e degli Stati Uniti sarà indispensabile.
Sul ruolo dell’Occidente, Abu Ramadan si spinge oltre: "Francia e Regno Unito hanno una responsabilità storica. Dopo la Dichiarazione Balfour, ora serve una nuova dichiarazione". E, con una battuta, ipotizza una “dichiarazione Starmer”, in riferimento al premier britannico.
Intanto, i negoziati proseguono. Poche ore dopo, Hamas annuncia di aver accettato la proposta di cessate il fuoco di 60 giorni mediata da Stati Uniti, Egitto e Qatar. La decisione finale spetta a Israele.
Ma al valico la situazione resta immutata. I convogli neri dei politici partono verso altri incontri, mentre i camion degli autisti rimangono fermi sotto il sole. Mahmoud e Ramadan, come migliaia di colleghi, restano in attesa: a pochi chilometri da Gaza, eppure lontanissimi da chi ha più bisogno di quegli aiuti.
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